Molte sono le famiglie che passarono e vissero tra le mura di questa villa e furono le stesse ad esercitare il potere sul contado circostante che era per la gran parte di loro proprietà.
Questo passaggio di mano tra varie casate è dovuto a questioni di eredità; infatti le proprietà di famiglia era uso che passassero nelle mani del primogenito maschio. Questa tradizione di altri tempi, prevedeva che nel caso la prole non avesse contato alcun soggetto maschile, l’eredità sarebbe stata divisa tra le figlie femmine, andandosi a sommare con il patrimonio dei risperrivi mariti.
Per questo motivo la villa porta più nomi, in realtà dovremmo indicarne addirittura cinque, quelli che ricadono anche sugli ultimi eredi di questa famiglia: Castelbarco Visconti Pindemonte Rezzonico Simonetta.

LA PRIMA FAMIGLIA IN VILLA: I SIMONETTA
I Simonetta, eredi di Alberico Belgioioso di Barbiano, descrivono la villa di Imbersago con queste parole al momento in cui ne divennero proprietari: “… casa di nobile sita nel detto luogo d’Imbersago, la qual consiste, entrando dalla porta a banda dritta in luogo aperto verso la corte, coperto di tetto sopra a quattro pilastri di cotto, con duoi torchi di vino con travello di sarzio di tenuta di brente sei e dieci tine di tenuta di brente venti cinque per cadauna, tre navazze e doi utensili per uso de detti…”. È chiaro che la casa somigliava più ad una fattoria attrezzata per trasformare i prodotti della campagna che non alle ville festose diffuse nell’Ottocento.
Ma da dove ha origine la ricchezza della casata Simonetta? Questa famiglia, originaria della Calabria, raggiunse Milano nel Tredicesimo secolo. Quando Francesco Simonetta, detto Ciccio, venne nominato da Carlo V conte palatino, la famiglia poté godere di grande onore. La fama del conte Francesco Simonetta portò lustro a tutto il casato nel ducato di Milano, tanto che il conte Francesco divenne segretario dei duchi Francesco e Galeazzo Sforza.
Quando Galeazzo venne assassinato, Ciccio Simonetta divenne governatore temporaneo del Ducato fino al giorno in cui la duchessa Bona di Savoia, reggente a nome del figlio minorenne Gian Galeazzo, non si affidò a Lodovico il Moro. Dopo questa scelta da parte della duchessa madre, Ciccio Simonetta venne imprigionato e poi decapitato nel 1480. Nonostante la dipartita del loro importante capostipite, i Simonetta avevano messo solide radici nel ducato milanese giungendo ad Imbersago per l’unione di Paolo Simonetta, conte di Torricella, e Barbara Barbiano di Belgioioso.
Il patrimonio dei Simonetta ad Imbersago era davvero immenso; secondo il Catasto Teresiano, fonte più autorevole dell’epoca, si conta che questa casata controllasse circa il cinquanta percento dei terreni dell’odierno comune. Il resto era prevalentemente diviso tra alcuni esponenti nobiliari e gli enti religiosi della parrocchia di San Marcellino e la Confraternita della Madonna del Bosco. Il rimanente, circa il quattordici percento, era diviso tra ben ventotto proprietari diversi, prevalentemente contadini della zona che coltivavano la terra.

L’ARRIVO DEI CASTELBARCO
Le origini del casato dei Castelbarco si trovano in Trentino, dove raggiunsero la massima loro evidenza con il conte Giovanni Battista, riconosciuto nel 1708 dall’imperatore austriaco Leopoldo come ciambellano e consigliere personale. Successivamente venne nominato, dal medesimo sovrano, commissario e plenipotenziario in Italia, in seguito amministratore del Ducato di Mantova.
Un fratello di Giovanni Battista, Giuseppe Scipione, sposò Costanza, figlia di Cesare Visconti, marchese di Cisalgo e conte di Gallarate. In questo modo il prestigio del casato dei Castelbarco poté congiungersi con quello dei Visconti, facendola conoscere nel ducato milanese.
Il giungere della famiglia Castelbarco ad Imbersago avvenne quando l’unica figlia del conte Antonio Simonetta venne data in sposa al conte Cesare Castelbarco, nipote del già citato Giuseppe Scipione. Con questo matrimonio i grandi possedimenti ad Imbersago passarono nelle mani di Cesare Castelbarco.
I Castelbarco giunti ad Imbersago durante il Sedicesimo secolo si batterono anche per la difesa di questo territorio, soprattutto di uno dei suoi simboli: la chiesa della Madonna del Bosco. I infatti si impossessarono del patronato del santuario durante le guerre austro-francesi della fine del Settecento; se questo non fosse stato fatto, un semplice organismo associativo avrebbe permesso ai due schieramenti di esercitare il loro potere e di farne ciò che avrebbero voluto.
Radicandosi ad Imbersago si può dire che i Castelbarco si insediarono sulle rive dell’Adda vantandosi dei loro importanti antenati, ma da lì in avanti persero la loro influenza politica e si dedicarono all’amministrazione dei loro terreni e beni immobiliari. La casata di origine trentina possedeva una grande quantità di fabbricati oltre a quelli annessi al parco della villa; inoltre erano in rapporto costante con i propri fattori e contadini facendosi carico anche delle relazioni con gli altri grandi proprietari del paese.
Il primo conte Cesare, appena arrivato ad Imbersago, si trovò subito impegnato ad appianare una questione con la famiglia Andreotti del Mombello: “Insorta certa pendenza fra l’eccellentissima Signora Contessa Simonetti di Castelbarco per una parte e l’illustrissimo signor conte Riva Andreotti per l’altra, rapporto a due stanghe fatte mettere dal mentovato signor conte Andreotti attraverso la strada che da Montbello discende alla Cassina Sabbiona ed indi ad Imbersago…” La questione venne risolta nel 1765 grazie ad un compromesso che pretendeva dal signor Andreotti che venissero rimossa, a certe condizioni, la stanga della discordia.

I CASTELBARCO NELL’OTTOCENTO IMBERSAGHESE
Dal punto di vista socio-politico la famiglia Castelbarco non manifestà grandi cambiamenti nonostante l’illuminismo stesse avanzando velocemente; sul versante socio-economico furono rigorosamente conservativi, comportamento dimostrato dall’atteggiamento quasi passivo che venne da loro tenuto nei confronti dell’intraprendenza della nascente borghesia. A testimonianza di questo fatto, si ha un documento nono datato, ma riferibile agli anni Trenta o Quaranta dell’Ottocento: “… Il signor Giuseppe Riva di Robbiate propone a sua eccellenza il signor conte Castelbarco di prendere a livello circa una pertica di sito sul letto della roggia Gallavesa in Imbersago, poco al di sopra al ponte di legno esistente sopra la medesima roggia che imette alla casa di Castelbarco, nel quale sito pensa di fabbricare un filatoio per lavorare la seta…”.
Il fatto che per portare ad Imbersago una Filanda fosse necessario che si muovesse il Riva, esponente di quella borghesia sempre più attenta alle opportunità del momento dimostra L’immobilismo dei Castelbarco. Tanta iniziativa non avrebbe dovuto essere forse più congeniale per gli ingenti investimenti alle abili competenze degli aristocratici conti del tempo?
Quello che possiamo riportare riguardo alla costruzione di questo filatoio, è ció che causò indirettamente ai conti. Si tratta di un furto di limoni coltivati nella serra dei conti Castelbarco. Vennero interrogati il camparo ed il giardiniere, i quali si trovarono in pieno accordo nell’indicare il ponteggio, attrezzato per costruire la filanda dei Riva di Robbiate, come facile accesso alla limonaia che era stato attrezzato per costruire la filanda dei Riva di Robbiate “Dietro alle interrogazioni svolte al Panzeri e al Riva, camparo e giardiniere, risultaz da questo ultimo che non saprebbe indicare il modo del furto di limoni, ma che ambi dubitano che siano entrati a mezzo del ponte ch’esisteva per la fabbrica della gallettera (filanda) in angolo verso la limonera, entrando sul risvolto di essa fabbrica e discendendo per mezzo dell’apertura in faccia a detta limonera…”. Venne così chiarito che probabilmente il furto era stato il risultato di una mancata sorveglianza da parte dei custodi deputati alla tutela della serra.

I CASTELBARCO NELL’OTTOCENTO IMBERSAGHESE
Dal punto di vista socio-politico la famiglia Castelbarco non manifestà grandi cambiamenti nonostante l’illuminismo stesse avanzando velocemente; sul versante socio-economico furono rigorosamente conservativi, comportamento dimostrato dall’atteggiamento quasi passivo che venne da loro tenuto nei confronti dell’intraprendenza della nascente borghesia. A testimonianza di questo fatto, si ha un documento nono datato, ma riferibile agli anni Trenta o Quaranta dell’Ottocento: “… Il signor Giuseppe Riva di Robbiate propone a sua eccellenza il signor conte Castelbarco di prendere a livello circa una pertica di sito sul letto della roggia Gallavesa in Imbersago, poco al di sopra al ponte di legno esistente sopra la medesima roggia che imette alla casa di Castelbarco, nel quale sito pensa di fabbricare un filatoio per lavorare la seta…”.
Il fatto che per portare ad Imbersago una Filanda fosse necessario che si muovesse il Riva, esponente di quella borghesia sempre più attenta alle opportunità del momento dimostra L’immobilismo dei Castelbarco. Tanta iniziativa non avrebbe dovuto essere forse più congeniale per gli ingenti investimenti alle abili competenze degli aristocratici conti del tempo?
Quello che possiamo riportare riguardo alla costruzione di questo filatoio, è ció che causò indirettamente ai conti. Si tratta di un furto di limoni coltivati nella serra dei conti Castelbarco. Vennero interrogati il camparo ed il giardiniere, i quali si trovarono in pieno accordo nell’indicare il ponteggio, attrezzato per costruire la filanda dei Riva di Robbiate, come facile accesso alla limonaia che era stato attrezzato per costruire la filanda dei Riva di Robbiate “Dietro alle interrogazioni svolte al Panzeri e al Riva, camparo e giardiniere, risultaz da questo ultimo che non saprebbe indicare il modo del furto di limoni, ma che ambi dubitano che siano entrati a mezzo del ponte ch’esisteva per la fabbrica della gallettera (filanda) in angolo verso la limonera, entrando sul risvolto di essa fabbrica e discendendo per mezzo dell’apertura in faccia a detta limonera…”. Venne così chiarito che probabilmente il furto era stato il risultato di una mancata sorveglianza da parte dei custodi deputati alla tutela della serra.

EMANUELE CASTELBARCO PINDEMONTE REZZONICO: ARTISTA E MECENATE
Dal secondogenito del conte Cesare, Giuseppe Scipione, nacquero fra gli altri Tommaso, che fu l’iniziatore di un nuovo ramo Castelbarco quando nel 1880 si sposò con Maria Luisa Pindemonte Rezzonico. Da questa unione nacque Emanuele Castelbarco Pindemonte Rezzonico.
Emanuele è noto non solo per due “grandi” matrimoni e per la vita mondana, ma anche per il suo interesse alle arti e per essere stato un vero mecenate di artisti e di iniziative culturali. Divenne famoso per le sue prime nozze in cui sposò Ercolina, figlia dell’industriale Carlo Erba, nome ancora oggi conosciuto nel settore farmaceutico. Da questo matrimonio nacquero tre figli, ma molti anni dopo questo matrimonio giunse al termine attraverso un escamotage legale che permise ai coniugi di divorziare. Dopo qualche anno e sposò Wally, figlia di Arturo Toscanini e regina della mondanità milanese di inizio Novecento.
Il suo primo suocero, Carlo Erba, intorno alla metà dell’Ottocento, era proprietario della farmacia di Brera (esistente tutt’ora in via dei Fiori oscuri 13 a Milano). Unita la Lombardia al Piemonte e ad altre regioni del regno d’Italia nel 1861, Erba ed altri proprietari presentarono al Comune di Milano un progetto urbanistico ed edilizio dal quale nacquero nei due anni successivi varie vie dai nomi risorgimentali. Una tra tutte è via Marsala dove lo stesso Erba costruì il primo stabilimento della sua industria chimica e farmaceutica.

Nonostante Carlo Erba decise di costruire una villa per la figlia Ercolina (detta Lina) ed il marito Emanuele Castelbarco, quest’ultimo si innamorò della figlia di Arturo Toscanini, Wally. Un articolo del “Corriere della Sera” di Lina Sotis ricorda come Emanuele Castelbarco avesse commissionato un ritratto di Wally ad Alberto Martini, pittore che stimava molto. Addirittura, per poter portare a compimento questo ritratto, il conte Emanuele aveva affittato un appartamento-studio nelle vicinanze della propria abitazione: gli bastava scendere di casa e girare l’angolo per incontrare Wally mentre posava per il Martini.
Altro aneddoto curioso è legato al divorzio tra Emanuele Castelbarco e Lina Erba. Infatti questa procedura non era prevista secondo la legge italiana, ma per sposare il nuovo amore in tempi nei quali il divorzio era ancora un concetto considerato scandaloso, si fece cittadino ungherese, e poi in quella nazione fece svolgere la procedura per concludere il divorzio. Qualche tempo dopo i due innamorati convolarono a nozze iniziando insieme una nuova vita.
Dopo il matrimonio con Wally, la coppia ebbe una figlia, Emanuela, la quale era conosciuta a Milano perché solo dopo il suo ingresso insieme alla madre sul loro palchetto alla Scala, il pubblico prendeva posto e si preparava all’inizio dello spettacolo che sarebbe stato imminente. Infatti l’orchestra e gli attori attendevano loro per poter iniziare la rappresentazione, in segno di grande rispetto.

Emanuele Castelbarco fu poeta, pittore, organizzatore culturale e mecenate. Un suo primo progetto fu “Bottega di poesia”, un cenacolo d’arte moderna che era la somma di una galleria d’arte e di una rivista che purtroppo durò pochissimo. Con questa iniziativa riuscì peró a promuovere progetti di pregio, molto legati al nome di Alberto Martini. Questo piccolo club di artisti ricevette molti apprezzamenti anche da importanti critici di quel tempo; uno tra questi fu Pica il più autorevole critico d’arte del primo Novecento che divenne segretario della biennale di Venezia nel 1920.
Emanuele Castelbarco ebbe invece un grande successo, organizzando nella galleria di via Montenapoleone la prima mostra della pittrice russa Tamara de Lempicka, che dalla bottega d’arte cominciò una lunga e fortunata serie di mostre in Europa e negli Stati Uniti e una vita mondanissima da grande star. Nell’inverno tra il 2006 e il 2007, il Comune di Milano ha promosso a Palazzo Reale un’esposizione riassuntiva della pittrice russa mettendo in mostra anche quadri di altri pittori del momento. Due tra questi il ritratto che Alberto Martini fece ad Emanuele Castelbarco e un autoritratto dello stesso conte-mecenate-pittore: un autoritratto molto ironico, in frac seduto su poltrona, ma nel vestito non c’è nessuno.